Ansia da Covid , utile il Traning Autogeno e gli esercizi di EMDR. Ma fondamentale è ascoltare i figli

Ormai , dopo un anno e mezzo di convivenza forzata con il Covid,  ci siamo già dovuti confrontare con questo nuovo tipo di stato ansioso: la paura di ammalarsi di Covid. L’ansia da Covid per dirla in sintesi, è sempre più comune in adulti e adolescenti.

Gli adolescenti,  nella loro specificità, tendono a pensare e riflettere molto, talvolta anche a ingigantire i problemi e le relative preoccupazioni. Molto più di quando vivevano l’età infantile.

L’adolescenza è l’età in cui si esce dal proprio ambito familiare, si entra in contatto col mondo e ci si pongono tanti perchè. Occorre quindi che gli adulti sappiano affrontare i figli in età adolescenziale con la dovuta calma e cercare di fornire loro risposte soprattutto realistiche. E’ fondamentale quindi non fuggire di fronte alle domande che i ragazzi di 12, 13 o 14 anni pongono spesso a bruciapelo, tanto da mettere in difficoltà i genitori.

Non importa rispondere subito. I ragazzi sanno aspettare,  meglio quindi prendersi il tempo di documentarsi. L’importante è rispondere con serietà, anche in modo semplice e per quello che si sa. E’ fondamentale quindi non scappare con dei pretesti, o per il timore di non saperne abbastanza.

Prendiamo le domande che i figli possono fare sul Covid: cos’è, come mai proprio ora, perchè ai vostri tempi non c’era, il prof . ci ha detto così e cosà, lo vedi che tu non ne sai niente? lo vedi che hai detto una cosa sbagliata?

Di fronte a commenti di questo tipo, oltre che rispondere per quello che si sa , è bene rimanere ancorati alla realtà. Non inventiamo quando non sappiamo cosa rispondere. I figli se ne accorgeranno subito. Meglio dire un onesto “non lo so, mi documento e poi ne parliamo”, piuttosto che inventare stranezze o arrampicarsi sugli specchi.

L’onestà come esempio aiuta a crescere nel modo migliore. Confrontatevi, leggete insieme degli articoli tecnici, medici, discutete insieme. Ascoltate i figli, le loro domande sono spesso argute e preziose.

Paola Federici

Ps

icologa Psicoterapeuta

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Centro Psicologico di Binasco (Mi) e di Rapallo (Ge)

Dott.ssa Paola Federici

Dott.ssa Paola Federici

Riceve a   BINASCO (Mi), in via Binaschi, 19 e a RAPALLO (Ge) in via privata Sbarbaro, 14
Appuntamenti  339.4632424  (è possibile richiedere un primo incontro anche con watsup) sarete richiamati

– mail: paolafedera@gmail.com

Guarda Google map dove si trovano i due studi.

Psicologa, psicoterapeuta per adulti, adolescenti, specialista in Psicoterapie brevi individuali e di coppia, psicopedagogista esperta in disagi dell’infanzia e difficolta’ di apprendimento, iperattivita’ e difficolta’ di concentrazione, sindrome ADHD.

Consulenze pedagogiche per genitori, colloqui e tests di orientamento scolastico per la scelta della scuola superiore o della Facoltà Universitaria.

Esperta di Training Autogeno e tecniche antistress e Master in Ipnosi clinica,Tecniche cognitivo comportamentali utili per molti problemi sia degli adulti che dell’adolescenza e dell’infanzia.
La dott.ssa Federici come psicopedagogista collabora con pediatri in zona sud Milano per disagi comportamentali di bambini anche molto piccoli e riceve i genitori per consulenze personalizzate.

La dott.ssa è esperta in analisi psicologica del disegno infantile, autrice di una collana di testi editi da Franco Angeli, tra i quali: I Bambini non ve lo diranno mai, ma i disegni si’, Il tuo bambino lo dice coi colori, Gli adulti di fronte ai disegni dei bambini, Mi disegni un albero? 

L’ultimo libro , uscito in maggio 2017, si intitola “IO LA MIA CASA LA VORREI” (con allegato on line), edito da Franco Angeli. Cercalo in questo sito al link “libri” o sul sito dell’editore Franco Angeli.

Consulenza per disturbi d’ansia, da stress, depressione,  attacchi di panico, fobie e paure immotivate, disturbi del comportamento alimentare, disturbi di personalita’, timidezza nel bambino e nell’adolescente.

La dott.ssa ha seguito un corso triennale in Naturopatia ed è esperta nell’uso dei Fiori di Bach, come supporto alle sedute, se richiesti.

 

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RICHIESTA PRIMO APPUNTAMENTO A BINASCO (MI) e a RAPALLO (GE)

Lo studio principale dove riceve la Psicologa Paola Federici è a Binasco (MI). Vicolo Martiri d’Ungheria, 6 Appuntamenti tel. 339.4632424
Per appuntamenti a Rapallo tel allo stesso numero 339.4632424

Lo studio di Rapallo è in via Privata Sbarbaro 14.

Per informazioni:

  • inviare una mail a: paolafedera@gmail.com
  •  oppure un watsup al n. 339.4632424
  • telefonate al 339.4632424 (in caso di mancata risposta inviare messaggio o watsup specificando la vostra richiesta)
  • Se possibile evitare i messaggi vocali, ma preferire i messaggi WATSUP che sono immediatamente segnalati e sarete richiamati in giornata
  • La parcella della dott.ssa Paola Federici è nella media. L’esperienza della Psicologa e Psicoterapeuta è trentennale.
  • Orientamento Psicodinamico e Cognitivo-comportamentale
  • Specializzazione ulteriore in Tecniche EMDR

 

 

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La psicologa Paola Federici riceve di persona a Rapallo e a BInasco

Si informa che anche nel periodo di emergenza covid la psicologa psicoterapeuta Paola Federici,  riceve di persona i pazienti, negli studi di Binasco (MI) di Rapallo (GE), con le precauzioni igieniche necessarie: sanificazione dei locali, igienizzazione delle mani all’ingresso, uso obbligatorio delle mascherine.
Per informazioni e appuntamenti:
Tel. 339.4632424
paolafedera@gmail.com
Si accettano appuntamenti anche via watsup e mail.

Indirizzi:

Binasco (Mi):  vicolo Martiri d’Ungheria n. 6

Rapallo (Ge): via priv. Sbarbaro, 14 i

Lo stress del terzo millennio

Lo stress del terzo millennio

Mi disegni un albero? (Franco Angeli MI)

Mi disegni un albero? (Franco Angeli MI)

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Interno studio di Binasco (ingresso da Vicolo M. d'Ungheria, 6

Interno studio di Binasco (ingresso da Vicolo M. d’Ungheria, 6

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Angolo studio a Binasco (Mi)

Angolo studio a Binasco (Mi)

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Maleducazione o nuove abitudini

Da diverso tempo sto osservando nelle abitudini sociali come dei comportamenti che fino a pochi anni fa erano considerati segnali di maleducazione, stiano diventando oggi abitudini sempre più comuni, quindi non solo accettate e tollerate, ma consolidate.

I tempi attuali stanno cambiando con una velocità che mai in passato avremmo immaginato. Le regole che i genitori insegnavano ai figli sul rispetto degli altri, del loro tempo, della loro privacy, del loro spazio, sembrano in poco tempo non avere più importanza per nessuno.

Riporto alcuni esempi di vita sociale con inquinamento acustico.

Un viaggio in treno, o in pulman ad esempio. Un tempo non c’era l’abitudine all’uso costante dei cellulari. Si rispondeva al telefono e stop. Con i cellulari di oggi abbiamo a disposizione il mondo in una mano.  La dipendenza dal cellulare non è solo delle nuove generazioni, si è ampliata su larga scala. Si rimane sempre collegati al mondo.  Non tutti però si procurano gli auricolari e un viaggio in treno rischia di diventare un bazar. Un vero mercato in tutte le lingue: la figlia che chiama la mamma, il fidanzato che racconta la giornata alla sua bella. Il tutto a piena voce e in mezzo a decine di viaggiatori che fanno altrettanto. Come essere a un mercato.

Pare che a nessuno dia fastidio sentire quel continuo urlare a voce alta, a parte qualcuno della generazione più che adulta. Coloro che hanno ricevuto e impartito ancora  regole di educative rimangono una triste e allibita minoranza.

Chi abita in un condominio si deve arrendere allo stesso strepito menefreghista. Le Tv a tutto volume, anche la notte. I sabati e le domeniche è tutto un battere di martelli, rumore di trapani, musiche dal ritmo ripetitivo e assordante dai balconi e dalle finestre, dai muri sottili e da un appartamento all’altro. A tutte le ore aspirapolveri e battitappeti.

Nei cortili i bambini strillano e giocano a ogni orario. Alle 13, 30, alle 14, alle 15 in barba agli orari di silenzio. La sera in estate fino a mezzanotte. I genitori intanto fanno capannello con gli amici all’esterno, cenano, brindano, fanno grigliate in barba agli odori che invadono gli appartamenti.

Appeso nell’atrio di ingresso un piccolo e triste quadretto col regolamento di condominio che nessuno legge. L’amministratore dice che chiamerà, ma non se ne ricorderà.

Troppa fatica.

  1. Continua

 

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La durata di una psicoterapia, facciamo chiarezza

piccolo-angolo-attesaFacciamo un po’ di chiarezza sul percorso psicoterapeutico e sul perchè a volte si sospende prima di averlo concluso

di Paola Federici

La prima domanda che mi pone un paziente al termine del primo incontro – oltre a conoscere la cifra , cosa più che ovvia – è  quanto durerà il percorso?

Anche questa domanda è ovvia, nell’ottica comune, molto meno invece lo è  per gli addetti ai lavori. Infatti i risultati e il benessere che ne trarrà il paziente, ma soprattutto in quanto tempo starà bene, è una domanda cui non è possibile rispondere con certezza.

Eccone i motivi principali, che spiego in prima seduta ai nuovi pazienti, se non altro perchè siano informati, come è  nostro dovere di terapeuti.

  1. Per prima cosa, è bene sapere che i risultati del percorso psicoterapeutico, di qualunque impostazione esso sia, non dipendono solo dallo psicoterapeuta. E’ la ragione per la quale dubito di coloro che passano da uno psicologo-psicoterapeuta all’altro, senza completare il percorso da nessuno. Come dire che se vado per un mese da uno, poi cambio e vado due mesi da un altro, poi cambio di nuovo con un terzo, lasciando i percorsi interrotti, il motivo sarà da ricercare proprio nelle problematiche dello stesso paziente. Ad esempio con questo comportamento ripetuto come un copione sempre uguale , egli  sta negando di essere lui ad avere un problema. E’ incapace di autocritica: le colpe sono sempre degli altri. 
  2. I risultati dipendono non solo dalla capacità e dall’intuito del professionista, ma anche da quanto il paziente sia pronto a mettersi in discussione. Se la persona non si mette in gioco, continuerà ad agire senza una sufficiente autocritica, poco aderente alla realtà e poco costruttiva.  Sto facendo solo alcuni esempi di chi non è intenzionato – per svariati motivi – a collaborare col terapeuta. E’ ovvio che spesso questi comportamenti sono inconsapevoli e si nascondono dietro a motivi razionali: la signora che non si esercita a casa nel training autogeno perchè ha il bambino da accudire, o la cena da preparare, la suocera che va e viene da casa sua…..sono ragioni che delineano una tipologia di personalità dipendente e piuttosto passiva. Il terapeuta in  questi casi può stimolare la persona a trovare soluzioni col marito, a farsi aiutare per le pulizie da una colf, a gestire il bimbetto con un po’ di regole sugli orari per metterlo a dormire molto prima della mezzanotte, a chiarire a mamme e suocere che la casa non è un porto di mare…..
  3. Se alla luce di tutto ciò,  la paziente non fa nulla per tentare di apportare qualche piccola modifica nello stile di vita suo e familiare, purtroppo non uscirà dalla sua tendenza al vittimismo.  E il percorso si bloccherà o si sospenderà “perchè non trovavo risultati” – dice spesso l’ex paziente. O magari cambierà terapeuta nell’illusione della bacchetta magica!
  4. Lo psicologo/psicoterapeuta è una figura professionale di supporto , che aiuta a riconoscere in se stessi capacità e risorse che non si pensava di avere. Perciò scoprire queste risorse inn se stessi, può migliorare l’autostima e la sicurezza di sè.  Si tratta di risorse sempre trascurate e mai esercitate, a causa di svariati motivi: un carattere remissivo, un’educazione troppo rigida, periodi di vita faticosi e cosi via. Ma se la persona che si rivolge a uno psicoterapeuta non si mette in gioco, anche con una certa fatica, non otterrà granchè. Spesso si demotiva ai primi ostacoli.
  5. E’ più facile cambiare psicoterapeuta che cambiare qualcosa in se stessi.  Eppure è solo questa la strada da percorrere. Cominciare con cambiamenti anche minimi. Solo dai piccoli cambiamenti iniziali si trarrà il coraggio di fare altri cambiamenti che a loro volta daranno l’entusiasmo vitale, in luogo della tendenza depressiva di partenza.
  6. Quante persone non hanno il coraggio  di chiedere una posizione di responsabilità pur avendone le competenze? O anche un aumento di stipendio che sarebbe dovuto da tempo? Vivono sperando che il capo glielo proponga, subendo passivamente orari assurdi, impegni eccessivi, portandosi a casa il lavoro da finire la notte…mentre le speranze si affievoliscono.  Gli esempi di condotte che sono all’origine di malessere psichico  sono moltissimi e in molteplici settori di vita sia personale che lavorativa.
  7. Un altro dei motivi per cui le psicoterapie si interrompono anzitempo,  è la scarsa sincerità del paziente. Personalmente chiedo sempre alla persona che ho davanti, fin dall’inizio, la sincerità. Soprattutto verso il terapeuta. E’ un ottimo esercizio. Se lo psicologo può aver detto una frase da cui il paziente si è sentito offeso,  deluso o semplicemente in disaccordo, sarebbe bene  dirlo subito! Grazie alla chiarezza nella comunicazione si potrà proseguire. Se mettiamo una pietra su qualcosa di non risolto, non si potrà che peggiorare la situazione. Inoltre con la sincerità si permette anche al terapeuta di poter chiarire un malinteso e soprattutto di capire meglio le reazioni del paziente.  Meglio chiarire che sparire senza dare spiegazioni.
  8. I percorsi lasciati a metà con scuse e pretesti da parte dei pazienti sono più di quanto non si pensi. Capita talvolta che per evitare confronti,  per timore  di discussioni e o di dover modificare qualcosa nella propria vita, si eviti  l’ostacolo e la persona scappi. Il paziente scappa in tanti modi: il peggiore per lui ovviamente è la fuga. Semplicemente non si fa più vivo. Se gli telefonate non risponde. Un’ altra modalità è non farsi più vivo dopo le ferie. Se gli telefonate addurrà delle scuse legate al lavoro, agli impegni, e cose simili. Altri diradano gli incontri senza preavvertire: all’ultimo momento hanno la febbre, poi il bambino è al pronto soccorso, poi la mamma malata….il motivo profondo è che non ce la fanno a proseguire quando si è arrivati a toccare un nucleo importante del loro percorso di vita. Ma non sono ancora pronti a rimuoverlo, a discuterne, a sviscerarlo. Talvolta scelgono inconsciamente di abbandonare e di accettare piuttosto di convivere con i loro sintomi.
  9. Quando dopo un paio di sedute, ci si accorge che non  si è creato un minimo di fiducia verso lo psicologo , è meglio ascoltare il proprio istinto. Non per forza tutti ci riescono simpatici!  E’ un segnale da non trascurare. Tentate don un altro.  E’ consigliabile inoltre informarsi nel corso del primo incontro sull’orientamento dello psicologo e di chiedere se sia anche psicoterapeuta. Non molti sanno infatti che per diventare psicoterapeuta occorre un ulteriore quadriennio di studio teorico e pratico dopo aver conseguito la laurea in psicologia.  Infine è diritto dei pazienti chiedere l’ orientamento specialistico (per esempio psicoanalitico, psicodinamico, cognitivo-comportamentale, tecniche ipotiche e cosi via). E’ importante comprendere quali metodologie si utilizzeranno e se siano le più adatti per voi. Un modo semplice per cominciare il percorso  è sentirvi a vostro agio con lo psicoterapeuta.
  10. Abbandonare invece dopo alcuni mesi il lavoro terapeutico, significa che si fugge di fronte a un ostacolo, ci si nasconde dicendo piuttosto che il terapeuta non vi capisce.  Chi sta fuggendo da se stesso, sospendende o va altrove. In questi casi sarebbe preferibile trovare la forza di parlare con sincerità al terapeuta sui motivi del disagio che si è venuto a creare, evitando cosi di scappare.
  11. Con le tecniche cognitivo comportamentali , L’EMDR e strategie simili molto attuali , il percorso terapeutico si è notevolmente accorciato. Non sarebbe ipotizzabile oggigiorno seguire per 8 o 10 anni una psicoanalisi tre volte la settimana. Quanto meno la maggior parte di utenti ne sarebbe esclusa per motivi puramente economici.  Dalla mia esperienza, pur non potendo definire a priori la lunghezza del periodo di psicoterapia, essendo questa legata alle problematiche del richiedente, oggi un percorso può andare dai tre/quattro mesi a un anno circa o poco più.  In genere propongo una seduta alla settimana nei primi tempi, in seguito, quando la persona comincia a stare  meglio e diventa più autonoma a livello emotivo, le sedute si diradano, fino a concludersi.
  12. E’ mia abitudine lasciare poi la porta aperta a chi ha concluso, per qualche incontro anche sporadico in casi di bisogno o di recidive, che, se il lavoro è stato svolto con continuità, sono di solito di breve durata.
  13. poltrona-per-ta
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Indirizzato a chi scrive allo psicologo

Ringraziare non usa più?

Mi dispiace dover continuamente constatare che alla richiesta di consulenza GRATUITA on line, sono ben poche le persone che si rivolgono a me in qualità di Psicologa-Psicoterapeuta , esponendo il loro problema anche in modo molto specifico e dettagliato, che in seguito alle mie risposte, pensino di ringraziare del tempo loro dedicato.

Forse chi scrive alla/o psicologo non pensa che per rispondere in modo utile per l’utente, occorra dedicare tempo e fare una lettura professionale dei quesiti, e quindi rispondere sulla base di conoscenze professionali non certo casuali.
Molte mail sono lunghe e farraginose, per cui l’impegno per rispondere non è proprio breve.
Pensare di inviare un “GRAZIE” magari sarebbe quanto meno sensato. Talvolta mi capita di chiedere quanto meno una risposta di ricezione.
Nel 98% delle richieste alle quali fornisco risposte dedicate allo specifico problema, non viene dato alcun seguito. Nemmeno un grazie oggi è di moda.
Sarà tutto dovuto? mah…..riflettiamo al nostro grado di civiltà.

Si fa presto a scrivere. Ringraziare invece appartiene purtroppo a pochi

Si fa presto a scrivere, ma ringraziare pesa ancora troppo

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Due film a confronto e la resistenza al cambiamento. “Senza lasciare traccia” come “Chocolat”

Dal film di Debra Granik

Dal film di Debra Granik

 

Il coraggio di cambiare vita di un’adolescente, punto di partenza del film di Debra Granik, è anche elemento fondamentale in psicoterapia

Appena visto il bellissimo film della regista statunitense Debra Granik, ho collegato subito un elemento che i critici non hanno rilevato. Il film mette in evidenza, nel finale alquanto significativo, il coraggio della ragazzina, la figlia del protagonista, di voler cambiare la propria vita. Il coraggio di cambiare realmente, abbandonando per questo un padre vagabondo, per rientrare nella società e accettandone le regole, sintetizza il coraggio dell’adolescente di iniziare la sua vita, a rischio di doversi separare dal padre.

Non è casuale che un buon esito di qualsiasi percorso di psicoterapia si basi sul cambiamento. Solo chi è disposto infatti a modificare qualcosa nel proprio percorso di vita, avrà fatto tesoro del percorso psicoterapeutico. Perché, come affermava anche Einstein “le persone pretendono che le cose cambino, senza fare nulla per cambiare qualcosa”.

Sarebbe come dire che la manna dal cielo non arriva se non ci si impegna per farla arrivare, e lavorare per uno scopo nella vita, credendoci per realizzarlo.

La maggior parte delle recensioni e critiche, per altro positive, di “Senza lasciare traccia”, si sofferma sul lato naturalistico delle immagini affascinanti delle foreste dell’Oregon,  al confine col Canada.

Altre recensioni sono attente alla vita di un padre e di una figlia che vivono nel Forest Park adiacente a Portland, al di fuori della società, tra giramondo e senza tetto. Senza andare oltre alla vita dei vagabondi nordamericani. Mentre questo è solo lo spunto per la prima parte del film.

Quasi da subito si avverte invece un significato ben più profondo, dal dubbio che si insinua gradualmente nella ragazzina , trascinata  dal padre per monti e foreste, a dormire all’addiaccio sotto una tenda di plastica, mentre l’inverno si avvicina.  Inizialmente la figlia pare seguire con fiducia suo padre, come ha sempre fatto o semplicemente perché è l’unica persona di famiglia che le è rimasta e perché gli vuole bene, come una figlia può voler bene al padre, unica fonte di sicurezza.  Ex soldato – forse reduce dal Vietnam – tornato traumatizzato dalla guerra, dopo alcuni anni gli muore anche la moglie e lui decide di incamminarsi con la figlioletta in giro per l’America, dormendo e vivendo dove capita. Da diverso tempo i due si sono accampati nel Forest Park in Oregon, spostandosi quando di sentono braccati, come fossero animali. In realtà si spostano continuamente, perché polizia e servizi sociali li inseguono, perchè la ragazzina, minorenne, dovrebbe andare a scuola e vivere come dovrebbe, nella civiltà.

In realtà il significato del film della Granik è orientato al cambiamento nel finale della storia. Il padre ha sempre dato per scontato che la figlia lo segua, non tiene nemmeno conto delle necessità di una ragazzina che vive al di fuori del mondo sociale, non può andare a scuola, anche se il padre non trascura l’educazione scolastica, impartendole lezioni.  Ogni tanto devono scappare dall’accampamento temporaneo che di volta in volta costruiscono, per sfuggire ai poliziotti. La ragazza lo segue sempre senza mettere in dubbio le decisioni paterne.  La poverina deve lasciare continuamente ciò che hanno costruito nelle brevi soste: il piccolo orto e le poche coltivazioni, le sue poche cose nascoste sotto un masso, piccoli attrezzi fatti con legni artigianalmente.  La loro vita è una fuga, andare oltre, senza lasciare nessuna traccia per non farsi prendere.

Lo sguardo della ragazza vaga sull’ultimo accampamento, alle cose lasciate per l’urgenza di scappare, con sé portano solo la tenda e i sacchi a pelo, uno zaino contiene un ricambio di abiti. Basta una pioggia per rendere duro il cammino, gli scarponi fradici e i piedi bagnati  dall’erba alta. Viaggiano sempre nei boschi per non essere trovati, Una capanna di legno, se sono fortunati, offre un momentaneo alloggio alloggio ai due, e un fuoco nel camino.

Finchè vengono trovati dalla polizia, inseguiti coi cani. Ma il finale potrebbe essere gradevole, perché nessuno intende fare loro del male. Lo Stato fornisce loro un bungalow di legno in paese, nuovo e corredato di tutto l’occorrente, vengono invitati dalle persone del villaggio alla vita sociale del luogo, in chiesa, alla vita di aggregazione sociale. La ragazza andrà a scuola. Conoscerà un ragazzo, un amico finalmente, che le insegnerà come allevare un coniglio da compagnia. La ragazzina è contenta. Non è una musona. Ma quando sta per abituarsi alla vita del villaggio, il padre, ancora una volta, la informa che dovranno preparare i loro zaini per la partenza.

La figlia gli risponde timidamente che in quel luogo lei sta bene, che le piacerebbe rimanerci. Ma il padre , forte dei suoi traumi passati – in realtà succube solo del suo egoismo che non gli permette di pensare al benessere della figlia – le dice che è arrivata l’ora di ripartire.

Una scena che ricorda , per similitudine, la protagonista del film “Chocolat”, che trascinava la figlia per monti e valli della Francia, trasferendosi di paese, ogni volta che insorgeva un ostacolo o un problema nella sua vita. Quando la bambina vedeva apparire il mantello rosso, significava che era giunta l’ora di partire di nuovo. Voleva dire lasciare gli amici, la casa, le abitudini , le sue piccole  cose e partire nel freddo vento invernale. Finchè arriva il giorno in cui la figlia trova il coraggio di pensare con la propria testa e si oppone alla madre. Le dice che se ne vada pure,  ma che lei questa volta, rimarrà nello stesso posto. Questo farà riflettere la madre a modificare la sua tendenza a fuggire, per amore della figlia, rimarrà. E la sua vita finalmente cambierà in meglio.

Non cosi semplice in “Senza lasciare traccia”, la figlia continua a seguire il padre, pare con la fiducia di sempre, ma col tarlo del dubbio che si insinua nella sua mente ormai  adolescente che pensa e si permette di obiettare.

E cosi fino alla tappa successiva, nella quale il padre, uscito per procacciare cibo, non rientra nella capanna di legno-rifugio dei due. L’inverno è ormai alle porte, la ragazzina è sola, senza legna per il fuoco e quasi senza cibo, decide di uscire alla ricerca del padre e lo salva. Era intrappolato sotto un albero caduto e si era rotto un piede. La figlia chiama aiuto e in soccorso arriva una comunità che vive in una specie di campeggio, dentro a roulotte. Vengono accolti, viene dato loro ancora una volta un riparo in una roulotte e la ragazzina comincia ad ambientarsi. Vivono comunque all’aperto,  in una foresta e lei spera  che al padre quella vita possa piacere.  Per consolidare la sua convinzione, un giorno prende la decisione di attingere alla scorta di denaro del padre e paga l’intero affitto della stagione per quella roulotte. In realtà la ragazza ha stretto amicizia con tutta la comunità, si parla, si canta, ci si fa compagnia e, soprattutto, ci si aiuta.

Ma quando informa il padre che ha pagato per l’intera  stagione, per tutta risposta l’uomo, ormai di nuovo in forma e guarito, le dice di prepararsi per la partenza l’indomani. Una storia senza fine. Un egoismo senza fine, sotto forma di traumi antichi, ormai solo un pretesto per continuare a fuggire dal mondo.

La ragazza questa volta chiede “Ma dove andremo?. Ma soprattutto chiede “Perché andare e dove?

Il padre la dà per scontata come sempre, le dice nella foresta, un’altra foresta, con un altro nome, che in fondo non è altro che la ripetizione della stessa vita di vagabondaggio di sempre. Questa volta la ragazza si impone:

“Ma non ne hai avuto abbastanza di quella vita ? Non ricordi che sei quasi morto?” gli urla.

“Si, ma mi sono salvato – risponde il padre.

“Io ti ho salvato! – risponde la figlia – se no eri morto!”.  Prende finalmente atto delle proprie possibilità, della sua autonomia e della sua libertà. Con quella frase “Io ti ho salvato” prende possesso del suo nuovo IO adulto e capace di decidere per sè.

“Tu vai – gli dice –ma io no. Io rimango”

La speranza era che il padre si rendesse conto, si trattava di scegliere tra un addio o un cambiamento definitivo. Il padre sceglie l’addio, la figlia il cambiamento, che le permetterà di essere finalmente se stessa. Si lasceranno con le lacrime agli occhi. Ma per la figlia è la salvezza e il suo futuro.

In un percorso di psicoterapia il risultato c’è solo se avviene un cambiamento. Solo se il paziente ha il coraggio di modificare qualcosa nella propria vita. Proprio come l’adolescente del film, sinonimo di cambiamento. Non a caso è la giovane a trovare il coraggio del cambiamento per avviare la propria vita autonoma. Il padre non fa più testo, viene lasciato andare. Cosi come lo psicoterapeuta viene lasciato andare da chi sente di aver terminato il suo percorso terapeutico.

Paola Federici

senza-lasciare-traccia, una scena dal film Il film “Senza lasciare traccia” uscito nel 2018 in Usa, proposto in Italia, è nelle sale in questi giorni a Milano, sta riscuotendo interesse come film “cult”. Si presta a molteplici interpretazioni. Debra Granik è regista anche di “Un gelido inverno”, del 2010.

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Matrimonio o convivenza? Questo il dilemma…..

matrimonio tradizionale?Di Paola Federici

Una mail di una lettrice e una risposta a tema psicologico su un argomento molto sentito oggi.

“Sono fidanzata da quasi 8 anni, ma da 3 anni viviamo la distanza. Abbiamo entrambi 26 anni. Il mio fidanzato lavora a Vicenza e io abito a Roma e abbiamo progettato il matrimonio per giugno 2020 .

Lui a settembre scorso ha terminato i 3 anni di leva volontaria nell’esercito, durante i quali eravamo lontani, ma ogni due settimane aveva i weekend liberi e tornava a trovarmi. Purtroppo però con l’attuale  lavoro in Veneto non ha giorni consecutivi di ferie, ma solo la domenica, per cui è impossibile pensare a un viaggio in giornata, quindi avremmo scelto la strada della convivenza, pur senza rinunciare al matrimonio fra due anni. Abbiamo comunicato la nostra intenzione ai miei genitori e siccome sono figlia unica si è scatenata una guerra tra urla, pianti e scene tragiche, perché i miei desiderano per me il classico matrimonio tradizionale. Cosa mi consiglia per riuscire a convincerli?”

Gentile signorina, lei non dice se a Roma lavora o studia, o non ha alcuna attività, perché l’autonomia economica è un buon lasciapassare per l’autonomia personale e quindi per decidere senza interferenze.

Presumo sia lei a trasferirsi nella città dove lavora il suo fidanzato, almeno credo di dedurlo dal contenuto della sua mail. Non dice nemmeno se il suo eventuale trasferimento possa avere delle conseguenze sulla sua famiglia, ad esempio se lei lavora e il suo stipendio è di sostegno ai genitori, oppure se lei abbia invece necessità di un mantenimento in caso di trasferimento a casa del fidanzato, o abbia inoltrato altre richieste economiche ai suoi genitori:  affitto o acquisto di una casa a loro carico, ad esempio, o altri motivi che comportino un sacrificio da parte loro eccessivo, che non sarebbe richiesto se restasse a Roma.

Premesso ciò, se i motivi non riguardano la sfera economica, trovo strano che a 26 anni lei sia ancora cosi dipendente dai genitori da non sapere gestire una situazione che rientra nella sfera della normalità  di una persona adulta che si dovrebbe sentire libera di decidere la propria vita. Analizzi se la vostra decisione di convivenza non crei problemi a nessuno in termini pratici. Poi affronti, eventualmente insieme al suo fidanzato, la sua famiglia d’origine . L’importante è spiegare loro le vostre motivazioni  con fermezza, senza spaventarsi dietro le urla e i pianti, che derivano solo da un retaggio culturale del tempo andato o forse dal timore del giudizio di parenti e amici.  Talvolta  le lamentele “a fin di bene” dei genitori nascondono un tentativo di manipolazione affettiva che nulla ha a che vedere con il benessere dei figli. Se lei dovesse rinunciare a una convivenza di cui è convinta, solo per non affrontare l’eventuale senso di colpa verso i genitori, rischierebbe di far pesare a vita questa decisione alla sua famiglia e di rovinare anche un buon inizio della coppia, che è l’unica a dover decidere  di se stessa.

D’altro canto, che riflessioni potrebbe avere un fidanzato che si accorge di una così forte dipendenza della sua ragazza dai genitori? Un legame tale da ostacolare l’autonomia  decisionale della stessa coppia  da condizionarne il futuro? Senza rendersene conto, a volte alcuni genitori possono peccare di egoismo, non lasciando emotivamente liberi i propri figli di scegliere la loro strada.

E’ ovvio che una scelta importante come una convivenza necessita di autonomia interiore e soprattutto di assumersene in toto la responsabilità. Ma è libera di scegliere come meglio vivere col suo compagno, non le pare?

La sua fermezza e decisione saranno la migliore opera di convinzione per i genitori, che alla fine si adatteranno. La decisione spetta a voi giovani, non ai genitori, considerata la vostra età, che non è certo adolescenziale. I genitori possono esprimere un’ opinione a un figlio adulto, ma devono rispettare le sue decisioni.

Le ho fornito alcuni spunti di riflessioni in chiave psicologica, che spero saranno utili ad avviarla verso una corretta decisione. A meno che sia lei, cara ragazza, a nascondersi in modo inconsapevole ma non del tutto, dietro i divieti di mamma e papà….perchè cosi non è obbligata a prendere alcuna decisione. E’ proprio sicura che non sia lei a non accettare la convivenza? e che sia sempre  lei a volere un rassicurante matrimonio tradizionale, con tanto di abito bianco e fiori d’arancio?

Vita di coppia e autonomia individuale

Vita di coppia e autonomia individuale

Dott.ssa Paola Federici , Psicologa Psicoterapeuta

Ricevo a Binasco (MI) – Rapallo (GE)

www.paolafederici.com

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Ma sono tutti dislessici i bambini di oggi?

 

bambini-che-leggono-insieme-un-libro-50771969Dislessici in aumento… ma è proprio così? 

Riflessioni di una psicologa

Di Paola Federici

Da diverso tempo mi giungono sempre più numerose le richieste di genitori in ansia, in preda alla preoccupazione di avere un figlio dislessico. Sembra diventato il male del secolo.

Certamente fino a qualche decennio or sono i bambini con problemi di dislessia non venivano riconosciuti. Il problema non era preso nemmeno in considerazione. In sostanza non se ne parlava, quindi non esisteva. I poverini erano definiti asini, svogliati, pigri, poco interessati, con poca memoria e alla fine lasciati perdere al loro destino, con ovvie conseguenze negative sia scolastiche che emotive.

Un trattamento da “somaro” porta sempre strascichi negativi in un bambino in crescita, paragonato di continuo ai compagni “più bravi”, più volonterosi, più in tutto. Talvolta ai problemi di lettura si sommava la discalculia, la difficoltà a fare i calcoli,  le banali quattro operazioni. Un tempo alcuni ragazzini non finivano nemmeno la quinta elementare, altri mollavano dopo la prima media o dopo due ripetute bocciature. Ma senza alcuna diagnosi in merito: incapaci, svogliati, non interessati. La scuola espelleva in fretta i ragazzini, che andavano a lavorare a 11 anni o frequentavano un corso professionale pratico, di due o tre anni al massimo, che insegnava loro un mestiere, dove di solito eccellevano e riconquistavano la fiducia in se stessi. Ma rimaneva  nell’angolo più profondo della loro personalità quell’ansia improvvisa di trovarsi, nel corso della vita, di fronte a un testo e non riuscire a leggerlo in pubblico, o dover scrivere sotto dettatura e non farcela.

Perchè  oggi cosi tante richieste di valutazioni per diagnosi di dislessia?

Sappiamo tutti che negare un problema non vuol dire che non esista. Anche se è stato fatto così per decenni.  Ma oggi sembra stia accadendo l’esatto opposto, nel senso che ho dubbi che si stia davvero esagerando. Sono davvero molte le telefonate che ricevo – e io lavoro come privata – so che le strutture pubbliche preposte per legge ad effettuare i tests per eventuale dislessia sono strapiene, con liste d’ attesa di almeno due anni, a volte anche di più . Tempo perso prezioso: se un bambino è dislessico a 6 anni e viene subito diagnosticato, viene aiutato nell’immediato, ha maggiori possibilità di recupero rispetto a un bambino di 8, 9 anni, mentre la situazione peggiora se la diagnosi viene effettuata in prima media.

Accade cosi che sempre più genitori, invitati dagli insegnanti a richiedere una valutazione con tests appositi, cadano nel panico, quando si trovano di fronte un muro di due o tre anni di attesa nei Centri di servizio pubblici.

Il bello è che la legge impone l’obbligo che tali valutazioni avvengano in strutture pubbliche, in caso si segnalazioni dei docenti, ma il numero di bimbi da valutare supera i tempi accettabili, a causa del personale esperto insufficiente. E così, la maggior parte dei genitori, si rivolge a psicologi privati.

Un’altra assurdità, capitata anche alla sottoscritta,  è che dopo aver fatto tutti i tests diagnostici – in un caso di ADHD, disturbo da deficit di attenzione e iperattività – i risultati, pur adeguati, vennero rifiutati dalla scuola e da chi doveva richiedere i supporti previsti dalla legge, perchè la diagnosi doveva provenire da una struttura pubblica. Occorre, tra l’altro, che sia una equipe a effettuare l’indagine, composta almeno da uno psicologo, un neuropsichiatra e un logopedista.

snoopyQuali le cause, è sempre e solo dislessia? O carenza di metodologia di studio, ambiti culturali diversi, ansia eccessiva di genitori preoccupati?

Si può comprendere la preoccupazione dei genitori di fronte alla richiesta degli insegnanti di una diagnosi, nel dubbio che il proprio figlio sia dislessico, disgrafico, quando si trovano a dover anche aspettare anni per avere una conferma o una rassicurazione che non c’è nulla di tutto ciò. Ma intanto il bambino come fa? Come procede? Dovrebbe seguire i programmi ma i metodi per riuscirci non glieli insegna nessuno. Si dovrà arrangiare, perdendo quasi sempre terreno, spesso i genitori, se possono,  lo mandano a lezione privata, già dalle scuole elementari o dalla prima media. Uno scollamento tra richieste scolastiche e mancate risposte del pubblico che rischia di ricreare gli asini di antica memoria e danni nella considerazione di se stessi, spesso non più superabili. Molte famiglie non possono proprio fare nulla, nè pagarsi le indagini diagnostiche presso equipe private o convenzionate, se riescono a trovarle: per molti bambini un ritardo di due o tre anni significa perdere anche punti nel livello di Q.I., senza gli stimoli adeguati perdono il treno e non fanno più nulla.

Dubbi e riflessioni

  • Diamo pure per certo che in passato i dislessici fossero non riconosciuti e bistrattati. Ma oggi c’è da chiedersi perchè mai le richieste di valutazione per dislessia provenienti dalle scuole siano così numerose. Molte richieste potrebbero essere evitate, per lasciare cosi maggiore spazio a coloro che ne hanno veramente necessità.
  • Perchè il tasso dei dislessici e disgrafici pare cosi aumentato negli anni? Ipotizzando che tutte le richieste non trovino conferma, cosa che accade, ma in misura leggera pare che quasi tutti questi alunni abbiano una qualche forma , anche minima, di dislessia, disgrafia, o discalculia. Possibile?
  • Ma non è che gli insegnanti, alle prime difficoltà, trovano più rapido – magari anche per mettersi al riparo da possibili errori di valutazione – inviare gli alunni ai Centri per la diagnosi della dislessia, piuttosto che tentare di approfondirne i motivi, per esempio la capacità organizzativa del bambino, la sua autonomia generale, l’età (talvolta sono sufficienti pochi mesi in meno della media all’ingresso nella scuola dell’obbligo a fare la differenza), il grado di responsabilità dei bambini, il fatto che siano seguiti nei compiti da un genitore o da qualche adulto, soprattutto nelle prime classi, piuttosto che abbandonati a se stessi.
  • E’ certo che risulta pià facile affidarsi a un “esperto” in materia, mentre a volte basterebbe in taluni casi, allenare l’alunno a una graduale autonomia e responsabilità.
  • Non è che a scuola teme di “rallentare” lo svolgimento dei programmi, e invece di avere presente gli alunni che si trova davanti, guarda rigidamente al cosiddetto “programma”, che va terminato ad ogni costo?
  • Non è che nessuno ha mai insegnato un metodo di studio adatto ai bambini delle scuole elementari e a quelli delle medie, che non riescono nemmeno a segnare i compiti da svolgere nella pagina giusta del diario o non hanno mai preso l’abitudine di usarlo?
  • Sappiamo che ognuno di noi ha un metodo di studio adatto alla propria modalità di apprendimento. Non mi risulta che a scuola si parta dall’insegnare i metodi. Alcuni alunni se li trovano da soli, o hanno un’ottima memoria uditiva, stanno attenti in classe e non hanno problemi. Altri tendono a distrarsi, possono arrivare da ambienti meno acculturati e certi termini suonano oscuri, difficili, poco usuali nella loro vita quotidiana. Basterebbe questo per incontrare difficoltà nell’apprendimento, nella comprensione di ciò che si legge. Come dire “leggo ma non capisco”.

(Fine Prima parte) – a breve segue la seconda parte: “Genitori iperansiosi, bambini nel panico

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Internet dipendenza, ma anche gli over 60 ne sono vittime?

al-ristorante-cell-dipendentiDa alcune osservazioni sul campo, pare proprio che questa dipendenza sia in aumento anche nella terza età

Figli e genitori, chi sono i più dipendenti da cellulari e tablet?

Quante volte nella mia professione, consiglio ai genitori di approfittare dei momenti vuoti per dialogare coi propri figli, col partner, insomma, parlare confrontarsi, discutere sugli argomenti più vari!

I momenti vuoti sono molti di più di quanto ci rendiamo conto: quando facciamo i taxisti per i nostri figli adolescenti non ancora in età di patente, quando accompagniamo i bambini a nuoto,  quando aspettiamo per entrare dal medico insieme a loro e tanti altri minuti e mezze ore preziose.  Dialogare non significa fare l’elenco dei “ti ricordi, hai chiesto i compiti al compagno di classe, hai messo a posto i cassetti, hai fatto merenda? “ Non i terzi gradi a senso unico, non gli interrogatori  superveloci del mattino mentre si scendono le scale per portarli a scuola, mentre si infila l’ultima manica del giubbotto o si chiude lo zaino slacciato correndo, niente di tutto questo. Parlo dei momenti realmente vuoti, di attesa,  in auto,  nelle sale di attesa per qualsiasi motivo.

Sempre più spesso vedo papà silenziosi attenti solo allo schermo del proprio cellulare, con figli altrettanto silenziosi e presi dallo schermo del  telefonino, o del tablet quando aspettano la cena al ristorante, perchè il tablet si appoggia sul tavolo ed è più comodo , basta appoggiarlo e smanettare tutta la sera, passando da un social network all’altro, ai messaggi watsup dei vari gruppi, il tutto col piatto di fianco e una forchettata ogni tanto, distrattamente, come se il lavoro principale fosse quello dedicato a internet, non la cena.

I genitori impassibili, ormai arresi al potere mediatico di internet, se pochi anni or sono colloquiavano amabilmente tra loro coinvolgendo qualche volta i rampolli, ormai li imitano, i rampolli. Mamma col cell, tra il gruppo delle amiche e quello della palestra, zappetta qua e là in pluriconversazioni,  testimone solo il sorrisetto che di tanto in tanto spunta sul suo viso. Il padre, occhi fuori dalle orbite, passa da una mail all’altra, prolungando senza problemi l’orario di lavoro dopo incessanti dodici ore continuate: dalle 8 del mattino quando parlava a voce alta al suo capo dal cell collegato al bluetooth della sua auto, fino all’ora di cena, ore 20 al ristorante con famiglia al seguito, del tutto estraniato come estraniati anche gli altri componenti della famigliola.

I suoni nei luoghi di ritrovo come i ristoranti, i bar nella pausa pranzo, i treni, le sale d’attesa dei medici, le carrozze delle metropolitane, brulicano di bipbip, clin clang, trin trin, spash, slash, breeeee……non più voci umane, bensì le suonerie dei cellulari , quelle delle telefonate, quelle dei watsup, quelle degli sms, le musichette, o al massimo i dialoghi di qualche film o musiche di spettacoli da you tub.

Quando dico ai padri: “Parli con suo figlio! Occorre dialogo, il bambino sta solo tutto il pomeriggio dopo la scuola, quando lei torna passi il tempo col bambino, fate cose insieme e raccontatevi la giornata, giocate insieme, insomma, comunicate!”

cellulare-dipendenti-in-aumentoIl padre di famiglia: “ Ma certo dottoressa, noi parliamo! Stia tranquilla, è cosi”

Il pater risponde convinto  e quasi convincente. La volta successiva li lascio apposta quindici minuti in sala d’attesa prima di chiamare il ragazzino, per vedere se approfittano di questo tempo prezioso, per vedere  se sono davvero abituati a parlare.paura-di-perdere-il-cellulare

Intanto non sento volare una mosca, dal mio studio il silenzio assoluto. Apro la porta e mi metto in ascolto, il nulla. Sembra che in saletta non vi sia nessuno. Dopo cinque minuti di silenzio assoluto, vado di là, li saluto , poi dico “Che bello che ti ha accompagnato il papà! Così avete un po’ di tempo da passare insieme, per parlare. Chissà quante cose avrete da dirvi!”

“Si, si” – conferma papà. In mano il tablet , sta guardando cose di lavoro.

“Si,sì” – conferma il figlio. I suoni del suo cellulare, anche se a basso volume, smascherano il giochino cui si sta dedicando.

Torno di là. Ancora silenzio assoluto.  Quando li chiamo finalmente in studio, i due sono ancora due perfetti estranei. Ognuno talmente concentrato sugli affari propri che nemmeno si sono guardati. Il papà spegna l’aggeggio solo al momento di entrare nel mio studio. Il figlio non spegne affatto il suo cellulare, che continua di tanto in tanto a emettere  versi improvvisi e terrificanti, finchè non glielo chiedo espressamente io , di spegnerlo. Il padre non fa una mossa, evidentemente assuefatto ai suoni continui di sottofondo.

Mi guardano con occhi vitrei , il ragazzino ha le occhiaie, occhio puntato verso l’amato schermo, che non osa mollare,  la mano ad accarezzarlo per tutta la durata della seduta. Insomma, un sostituto della copertina di Linus.

All’autogrill i due anziani, ma quanto parlano tra loro!  famiglia-cell-dipend

Oggi sono in autostrada, entro in autogrill e mi accomodo in zona Spizzico per una pizza. Mi siedo, mi rilasso, bevo la mia coca zero e mi guardo intorno, come faccio sempre quando sono in un locale pubblico. Curiosità professionale.

Pregusto la bella fetta di pizza calda mozzarella filante e nell’attesa, vedo solo tre tavoli occupati. Il silenzio impera. Intendo quello di voci umane. Dietro le quinte, solo il barista ogni tanto annuncia: la pizza margherita! la focaccia con pomodoro e crudo! la birra con panino al salame!

Due tavoli sono occupati da due single. Normale che mangino col cellulare sul tavolo. “Poveretti, mi dico, sono soli, cosa devono fare?”.  Naso sullo schermo, dita corrono sulla tastiera velocissime, alla pizza è concessa attenzione quasi nulla.

Poi lo sguardo mi cade sul tavolo in fondo, di fronte alla vetrata.

Due persone di età approssimativa 65-69, mangiano in religlioso silenzio il loro trancio fumante.  Posizione simile a quella dei due single. Uno di fronte all’altra, marito e moglie presumibilmente, non si degnano nè di uno sguardo nè di una parola. Faccia non dentro la pizza, ma china sul tavolo, ognuno sul proprio cellulare. Non si guardano l’uno con l’altro, non parlano tra loro.

Attenti  e intenti, il dito si muove veloce, immersi come bambini  nel loro gioco preferito. Tanto interessati al gioco che non si accorgono di nessuna presenza umana a fianco a loro. Nemmeno  del cagnetto che lei tiene al guinzaglio, che gironzola finchè il laccio glielo consente, poi strepita, si accuccia, vuole coccole, vuole la pizza, vuole attenzioni insomma.

Nulla li smuove dal loro giochino. Cosa ce l’avranno a fare il cagnetto?

Cosa avrà internet da attrarre cosi tanto ormai anche la terza età?  Tanto attraente da parlare in rete, watsup, mail o quant’altro , tanto interessante da aver fatto diventare tutti esperti dattilografi super rapidi anche in età da pensione, tanto da riuscire a rimanere concentrati per tutto il pranzo su un piccolo schermo come quello di un telefonino.

Forse la risposta è che in internet non ci si annoia? Che se ci si annoia si cambia in una frazione di secondo la persona, il posto, la vacanza, la città, gli oggetti, la vita. A proprio gusto, e permette di sognare, correre e andare in capo al mondo….

Certamente, sono sogni, ma i sogni riempiono l’esistenza dei più. Anche se non si avverano L’importante è sognare. Il sogno mantiene viva la speranza. E di questa ci si può nutrire.  La realtà i sogni li ammazza, se non ci si allena a modificarla, a temprarla, a parlarsi per adattarvisi se non è possibile cambiarla.

Internet è il sogno che è anche realtà  di un istante. Poi si cambia realtà, ancora e ancora. Sarà questa la dipendenza che porta i vecchietti a diventare, anche loro, dipendenti da internet? Certamente, su internet non si invecchia mai. E se una risposta non piace, vado altrove dove sono più contento.

Semplice, no?

Paola Federicial-ristorante-cell-dipendenti

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