Due film a confronto e la resistenza al cambiamento. “Senza lasciare traccia” come “Chocolat”

Dal film di Debra Granik

Dal film di Debra Granik

 

Il coraggio di cambiare vita di un’adolescente, punto di partenza del film di Debra Granik, è anche elemento fondamentale in psicoterapia

Appena visto il bellissimo film della regista statunitense Debra Granik, ho collegato subito un elemento che i critici non hanno rilevato. Il film mette in evidenza, nel finale alquanto significativo, il coraggio della ragazzina, la figlia del protagonista, di voler cambiare la propria vita. Il coraggio di cambiare realmente, abbandonando per questo un padre vagabondo, per rientrare nella società e accettandone le regole, sintetizza il coraggio dell’adolescente di iniziare la sua vita, a rischio di doversi separare dal padre.

Non è casuale che un buon esito di qualsiasi percorso di psicoterapia si basi sul cambiamento. Solo chi è disposto infatti a modificare qualcosa nel proprio percorso di vita, avrà fatto tesoro del percorso psicoterapeutico. Perché, come affermava anche Einstein “le persone pretendono che le cose cambino, senza fare nulla per cambiare qualcosa”.

Sarebbe come dire che la manna dal cielo non arriva se non ci si impegna per farla arrivare, e lavorare per uno scopo nella vita, credendoci per realizzarlo.

La maggior parte delle recensioni e critiche, per altro positive, di “Senza lasciare traccia”, si sofferma sul lato naturalistico delle immagini affascinanti delle foreste dell’Oregon,  al confine col Canada.

Altre recensioni sono attente alla vita di un padre e di una figlia che vivono nel Forest Park adiacente a Portland, al di fuori della società, tra giramondo e senza tetto. Senza andare oltre alla vita dei vagabondi nordamericani. Mentre questo è solo lo spunto per la prima parte del film.

Quasi da subito si avverte invece un significato ben più profondo, dal dubbio che si insinua gradualmente nella ragazzina , trascinata  dal padre per monti e foreste, a dormire all’addiaccio sotto una tenda di plastica, mentre l’inverno si avvicina.  Inizialmente la figlia pare seguire con fiducia suo padre, come ha sempre fatto o semplicemente perché è l’unica persona di famiglia che le è rimasta e perché gli vuole bene, come una figlia può voler bene al padre, unica fonte di sicurezza.  Ex soldato – forse reduce dal Vietnam – tornato traumatizzato dalla guerra, dopo alcuni anni gli muore anche la moglie e lui decide di incamminarsi con la figlioletta in giro per l’America, dormendo e vivendo dove capita. Da diverso tempo i due si sono accampati nel Forest Park in Oregon, spostandosi quando di sentono braccati, come fossero animali. In realtà si spostano continuamente, perché polizia e servizi sociali li inseguono, perchè la ragazzina, minorenne, dovrebbe andare a scuola e vivere come dovrebbe, nella civiltà.

In realtà il significato del film della Granik è orientato al cambiamento nel finale della storia. Il padre ha sempre dato per scontato che la figlia lo segua, non tiene nemmeno conto delle necessità di una ragazzina che vive al di fuori del mondo sociale, non può andare a scuola, anche se il padre non trascura l’educazione scolastica, impartendole lezioni.  Ogni tanto devono scappare dall’accampamento temporaneo che di volta in volta costruiscono, per sfuggire ai poliziotti. La ragazza lo segue sempre senza mettere in dubbio le decisioni paterne.  La poverina deve lasciare continuamente ciò che hanno costruito nelle brevi soste: il piccolo orto e le poche coltivazioni, le sue poche cose nascoste sotto un masso, piccoli attrezzi fatti con legni artigianalmente.  La loro vita è una fuga, andare oltre, senza lasciare nessuna traccia per non farsi prendere.

Lo sguardo della ragazza vaga sull’ultimo accampamento, alle cose lasciate per l’urgenza di scappare, con sé portano solo la tenda e i sacchi a pelo, uno zaino contiene un ricambio di abiti. Basta una pioggia per rendere duro il cammino, gli scarponi fradici e i piedi bagnati  dall’erba alta. Viaggiano sempre nei boschi per non essere trovati, Una capanna di legno, se sono fortunati, offre un momentaneo alloggio alloggio ai due, e un fuoco nel camino.

Finchè vengono trovati dalla polizia, inseguiti coi cani. Ma il finale potrebbe essere gradevole, perché nessuno intende fare loro del male. Lo Stato fornisce loro un bungalow di legno in paese, nuovo e corredato di tutto l’occorrente, vengono invitati dalle persone del villaggio alla vita sociale del luogo, in chiesa, alla vita di aggregazione sociale. La ragazza andrà a scuola. Conoscerà un ragazzo, un amico finalmente, che le insegnerà come allevare un coniglio da compagnia. La ragazzina è contenta. Non è una musona. Ma quando sta per abituarsi alla vita del villaggio, il padre, ancora una volta, la informa che dovranno preparare i loro zaini per la partenza.

La figlia gli risponde timidamente che in quel luogo lei sta bene, che le piacerebbe rimanerci. Ma il padre , forte dei suoi traumi passati – in realtà succube solo del suo egoismo che non gli permette di pensare al benessere della figlia – le dice che è arrivata l’ora di ripartire.

Una scena che ricorda , per similitudine, la protagonista del film “Chocolat”, che trascinava la figlia per monti e valli della Francia, trasferendosi di paese, ogni volta che insorgeva un ostacolo o un problema nella sua vita. Quando la bambina vedeva apparire il mantello rosso, significava che era giunta l’ora di partire di nuovo. Voleva dire lasciare gli amici, la casa, le abitudini , le sue piccole  cose e partire nel freddo vento invernale. Finchè arriva il giorno in cui la figlia trova il coraggio di pensare con la propria testa e si oppone alla madre. Le dice che se ne vada pure,  ma che lei questa volta, rimarrà nello stesso posto. Questo farà riflettere la madre a modificare la sua tendenza a fuggire, per amore della figlia, rimarrà. E la sua vita finalmente cambierà in meglio.

Non cosi semplice in “Senza lasciare traccia”, la figlia continua a seguire il padre, pare con la fiducia di sempre, ma col tarlo del dubbio che si insinua nella sua mente ormai  adolescente che pensa e si permette di obiettare.

E cosi fino alla tappa successiva, nella quale il padre, uscito per procacciare cibo, non rientra nella capanna di legno-rifugio dei due. L’inverno è ormai alle porte, la ragazzina è sola, senza legna per il fuoco e quasi senza cibo, decide di uscire alla ricerca del padre e lo salva. Era intrappolato sotto un albero caduto e si era rotto un piede. La figlia chiama aiuto e in soccorso arriva una comunità che vive in una specie di campeggio, dentro a roulotte. Vengono accolti, viene dato loro ancora una volta un riparo in una roulotte e la ragazzina comincia ad ambientarsi. Vivono comunque all’aperto,  in una foresta e lei spera  che al padre quella vita possa piacere.  Per consolidare la sua convinzione, un giorno prende la decisione di attingere alla scorta di denaro del padre e paga l’intero affitto della stagione per quella roulotte. In realtà la ragazza ha stretto amicizia con tutta la comunità, si parla, si canta, ci si fa compagnia e, soprattutto, ci si aiuta.

Ma quando informa il padre che ha pagato per l’intera  stagione, per tutta risposta l’uomo, ormai di nuovo in forma e guarito, le dice di prepararsi per la partenza l’indomani. Una storia senza fine. Un egoismo senza fine, sotto forma di traumi antichi, ormai solo un pretesto per continuare a fuggire dal mondo.

La ragazza questa volta chiede “Ma dove andremo?. Ma soprattutto chiede “Perché andare e dove?

Il padre la dà per scontata come sempre, le dice nella foresta, un’altra foresta, con un altro nome, che in fondo non è altro che la ripetizione della stessa vita di vagabondaggio di sempre. Questa volta la ragazza si impone:

“Ma non ne hai avuto abbastanza di quella vita ? Non ricordi che sei quasi morto?” gli urla.

“Si, ma mi sono salvato – risponde il padre.

“Io ti ho salvato! – risponde la figlia – se no eri morto!”.  Prende finalmente atto delle proprie possibilità, della sua autonomia e della sua libertà. Con quella frase “Io ti ho salvato” prende possesso del suo nuovo IO adulto e capace di decidere per sè.

“Tu vai – gli dice –ma io no. Io rimango”

La speranza era che il padre si rendesse conto, si trattava di scegliere tra un addio o un cambiamento definitivo. Il padre sceglie l’addio, la figlia il cambiamento, che le permetterà di essere finalmente se stessa. Si lasceranno con le lacrime agli occhi. Ma per la figlia è la salvezza e il suo futuro.

In un percorso di psicoterapia il risultato c’è solo se avviene un cambiamento. Solo se il paziente ha il coraggio di modificare qualcosa nella propria vita. Proprio come l’adolescente del film, sinonimo di cambiamento. Non a caso è la giovane a trovare il coraggio del cambiamento per avviare la propria vita autonoma. Il padre non fa più testo, viene lasciato andare. Cosi come lo psicoterapeuta viene lasciato andare da chi sente di aver terminato il suo percorso terapeutico.

Paola Federici

senza-lasciare-traccia, una scena dal film Il film “Senza lasciare traccia” uscito nel 2018 in Usa, proposto in Italia, è nelle sale in questi giorni a Milano, sta riscuotendo interesse come film “cult”. Si presta a molteplici interpretazioni. Debra Granik è regista anche di “Un gelido inverno”, del 2010.

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Una risposta a Due film a confronto e la resistenza al cambiamento. “Senza lasciare traccia” come “Chocolat”

  1. paola scrive:

    Aspetto qualche commento a questo articolo. Magari qualche altra intepretazione da chi ha visto il film!

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